giovedì 31 gennaio 2013

Sapienza e tradizione

Il centro storico di Napoli è a dir poco affascinante, per certi versi ancor più che  Mergellina, o il paesaggio mozzafiato che offre Posillipo. Ciò che rende imparagonabile questo spaccato di storia è la magia di cui è pervaso. Tra i vicoli di San Gregorio Armeno, di Port’Alba, dei Tribunali, di San Biagio dei Librai e di San Sebastiano c’è una cosa che risalta subito agli occhi: pullula di arte. 


Non parlo di arte in senso architettonico, non mi riferisco a palazzi storici, o a statue di particolare fattura. No. Parlo di arte nel senso stretto. In questa parte di Napoli ci sono le pizzerie e le trattorie storiche, quelle che sfornano Margherite e pasta e fagioli da oltre cent’anni. Le librerie più antiche, quelle che hanno pubblicato raccolte clandestine di Neruda quando il grande Poeta passò per Napoli durante il suo esilio.

 

Le più ricercate botteghe dei mastri liutai, i più forniti negozi di musica. E passeggiando per quella ragnatela soffocante di dedali si respira un’atmosfera che nessuna grande catena di distribuzione può regalare: si respira passione. Passione per il proprio lavoro, passione per quell’arte (eccone il senso cristallino) che si tramanda da generazioni, come uno scrigno di bellezza da conservare assolutamente. I bassi che emanano un profumo estasiante di colla e legno, il ticchettio degli artigiani alle prese con i ferri del mestiere, gli scaffali traboccanti di libri ingialliti e in edizioni ormai introvabili. La vita artistica che freme, esplode con dolce violenza e resta lì, baluardo invincibile contro la frenesia di un consumismo che, se ha migliorato la raggiungibilità dell’offerta, ne ha sicuramente impoverito l’esclusività e la qualità.


Due settimane fa sono entrato in uno store di libri, di una grande catena nazionale. Ho chiesto se avevano una particolare raccolta di Dylan Thomas. La commessa prima mi ha chiesto come si scrivesse, poi mi ha chiesto se ricordavo l’editore e infine, dopo dieci minuti di controlli incrociati al pc, mi ha detto che era esaurito. Mi sono allora recato a Port’Alba, sperando di trovare almeno una versione usata. Entro in una storica libreria, dove sono accoltoda  un uomo anziano, capelli bianchi ed occhiali da vista, intento ad armeggiare con una vecchia rilegatura.  “Salve, per caso avete Ritratto dell’artista da cucciolo?” “No, guagliò, mi spiace. Quel libro di Thomas è ormai esaurito da anni, non si trova più in giro”. 
La sapienza di un artista per tradizione.

martedì 8 gennaio 2013

HENRY CARTIER-BRESSON @ Reggia di Caserta_ (meglio tardi)

BREVE PREMESSA SUI RITARDI (mentali e non).  [Post scritto il 05/01/2013]

4 gennaio
Ore 03:39. Jarmusch club, Caserta. 
"Noi domani mattina andiamo a una mostra" 
"Ah... domani mattina dici? ma a che ora?"    
"A. dice alle 10:00, quindi verso mezzogiorno" 
"ma una mostra... di che? di chi?"     
"Bresson" 
"Chi?" 
"Cartier- Bresson"
 Silenzio. 
"Ah... e chi è??" 
"Un fotografo."                
"Ok. Veniamo anche noi."

Lo so... ieri al Jarmusch c'era qualcuno... ho sentito anche recitare, e suonare un piano. Ma la verità è che sono arrivata tardi. La terza volta dall'inizio dell'anno. E ieri eravamo solo al giorno 4.
Comincio a pensare, a questo punto, che, dopo i motti degli anni precedenti, che recitano rispettivamente:  

" 'o 2010 nun ce l'amma fà chiù c'e sciem" [trad. "nel 2010 ci impegneremo a non frequentare più gli stolti"]
" 'o 2011 "Fuje semp tu/mò te faccio verè io" [trad. "nel 2011 scappa finchè sei in tempo/ma quando è il momento attacca"], e
" 'o 2012 "amma fà sord... ma sord assaje" [trad. "nel 2012 dovremo arricchirci molto"] 

il motto del 2013 "E mò ce n' amma vedè bene" [trad. "e adesso è proprio arrivato il momento di godercela!"] possa quasi, "tranquillamente", prevedere l'aggiunta dell'espressione "MEGLIO TARDI", dove al termine "tardi" lascio la possibilità di attribuire, a seconda delle proprie esperienze ed esigenze personali, la duplice accezione di "in ritardo" e/o quella di "un po' idioti". 

In ogni caso, visto che si tratta del mood 2013, già che dobbiamo godercela, meglio tardi: che non c'è fila, la gente sta andando via, è più buio, c'è più silenzio, la vista è un pò annebbiata, e siamo tutti più rilassati. 

5 gennaio
Ore 10:00. 
"F. ha chiamato. Andiamo? o riprendiamo il coma fingendo di non aver mai avuto alcuna informazione riguardo ad attività mattutine non meglio specificate?"        
"Non sono in grado. Decidi tu. E fammi sapere se mi devo alzare". 
Dieci minuti di silenzio. 
"Ok, alzati. Andiamo". 
Un "ok", il mio, voce rotta, risuona dall'oltretomba.

Ore 12:00. Reggia di Caserta. 
Non parlerò della biglietteria e di quel signore gentile grazie al quale io abbia evitato combattimenti alla Kill Bill il giorno 5 dell'anno nuovo. Sappia, il signore, con la s minuscola, che lo ringrazio, chiunque sia, e ovunque si trovi. 

Giusto per onestà e precisione, quella che non sapeva chi fosse "Bresson" ero io. 
So un po' di cose... ma non le so proprio tutte. 
Quando leggo "Henry Cartier- Besson" sul banner, nel mio cervello si attiva qualche sinapsi, e capisco che non è un nome estraneo al mio database... ma in ogni caso "nun o'sacc'!" [trad. temo di non ricordarmi di chi si tratti]. 

Entro nella Reggia, 10 euro per visitare gli appartamenti e la mostra, e scatto un paio di foto di rito, o di routine, quelle inevitabili che non sono mai belle perché nell’obiettivo non c'entra mai “abbastanza roba”.

Henry Cartier-Bresson. La sua biografia l’ho letta, ovviamente, dopo aver visto la mostra. E non ne parlerò, perché odio le biografie. Schematizzazioni di vite che non servono a niente. A me piace così. Non mi importa chi sia l’artista con cui mi vado a confrontare. Mi importa che mi rimangano nella mente un colore, un’impressione, un sentimento. Meno ne so, più sono contenta, e più spero che mi venga la voglia di conoscere la sua storia, per capirla e poi dimenticarla.

Ed ecco, di seguito, quello che mi ha emozionato della mostra, nonostante il freddo e il sonno, e il freddo da sonno.

Due foto di Matisse: Henry Matisse, 1944. Henry Matisse, Vence, 1944.

Henry Matisse,  1944
Le interazioni tra gli artisti mi affascinano. Molto. Mi piace che i pittori frequentino gli scrittori, che i poeti frequentino i musicisti, che gli scultori frequentino i registi, e che i registi girino documentari sugli artisti. Mi piaceva che i futuristi si scambiassero cartoline di auguri futuriste e cravatte futuriste, e chissà che  ai tavoli dei locali poco fashion nei quali ci ritroviamo di notte non ci siano seduti degli sconosciuti e ancora incompresi Rimbaud o Verlaine, o entrambi. Mi diverte che un fotografo fotografi un pittore, e che poi si allontani dalla fotografia perché lo annoia, e si dedichi al disegno e alla pittura. Una delle mostre più belle che abbia visto nella vita è stata senza dubbio quella di Alphonse Mucha, a Praga, in quale anno non me lo ricordo più. Se penso ai disegni a matita, il mio cervello non riesce a non pensare ai suoi. 

L'Isle-sur-Sorge, 1988

L’Isle-sur-Sorge, 1988. Nel commento si legge che l’autore, al telefono, abbia detto di aver scattato questa foto senza un’intenzione particolare. Da 15 anni aveva perso ogni interesse per la fotografia, dedicandosi alla pittura e al disegno. E la foto, in effetti, sembra soltanto un quadro di Monet.

Una sbirciata veloce ai miei appunti...

"Messa di mezzanotte a Scranno, Abruzzo, 1933"
Tre uomini calvi. “Gufi notturni pietrificati dalla luce” li definisce “Dominique Fernandez”. I cappelli, sull’altare. Un immagine, nello stesso istante, inquietante e quieta.

"Il cardinale Pacelli a Montmartre, 1938"
La folla, in un'armonia perfetta. I personaggi sembrano appartenere alla scena di un film.

"Downtown, New York, 1947" 
Uno scorcio buio. Un uomo, e un gatto. Descrivere New York è sempre superfluo. 

"Parigi, 1961"
Una figura, una strada, e Parigi. Parigi, lo so, è come New York, anche se non ci sono mai stata.

"Diritto alla pigrizia" F1 (i miei amici hanno tutti lo stesso nome, e identificarli con le iniziali è sempre complicato). F1 si avvicina ad una foto: "Terreno comunale, Boston, USA, 1952".          
"Ehy, questa è la nostra foto!". 
Uomini sdraiati sul prato in maniera più o meno casuale e scomposta: diritto alla pigrizia. Sorrido. Proprio ieri raccontavo ad un'amica quanto mi piacesse starmene sdraiata, stramazzata al suolo nella sabbia, capelli non sulla sabbia, ma DENTRO la sabbia. Si.  Abbiamo sempre, tutti, il diritto di piombare a terra quando siamo stanchi, e rimanere sull'erba finchè l'umidità non prenda il sopravvento sulle nostre ossa. 

"Tennesse, USA, 1947"
 Jesus is coming soon. La scritta, incisa su una croce, che domina su un cimitero di auto. 

Tra le più belle, la foto di una donna messicana che porta in giro il suo bambino avvolto in un velo nero, che trasparente e leggero lo protegge come una placenta. Nel nero del velo il rispetto, la serietà e la devozione.

"Siviglia, 1933. Premonizione alla guerra civile"
C'era una volta un libro che avevo trovato in cantina, che si chiamava "Che cos'è la parapsicologia". Libro requisito e sottoposto a consulenza tecnica sui miei presunti poteri paranormali. La mia prof. di storia lo diceva sempre: "Visitatio est quaedam inquisitio"... cazzo [caspiterina] avrei dovuto ricordarmene prima di aprire la porta di casa!! L'inquisizione, comunque, sarebbe stata più gentile. Suppongo che, in un allegro omaggio alla campagna nazista di diseducazione della Polonia, sia stato bruciato come le migliori e rispettabili streghe. 
Si leggeva, in tale manuale tecnico e documentato, che esistesse, negli Stati Uniti, e dove se no, un centro in cui ci si potesse recare per comunicare le proprie premonizioni. Le "testimonianze" dei soggetti che avessero comunicato i loro sogni prima dell'accadimento, sarebbero diventate casi di studio, così come i soggetti stessi. Un po' come al nascondino, bisognava parlare un attimo prima, o qualunque precognizione sarebbe stata considerata non attendibile. 
Cartier-Bresson fotografa dei ragazzini che giocano alla guerra 3 anni prima della guerra vera, in uno scenario di devastazione generale. Casualità, intuito, o premonizione.

e infine...


Marsiglia, 1932
Jim Jarmusch commenta una foto, "Marsiglia, 1932", dichiarando che la foto non abbia bisogno di alcun commento.

Finita la mostra mi guardo intorno negli appartamenti del re: ammiro gli stucchi, cerco di proporzionarmi rispetto ai lampadari, mi interrogo sullo spessore dei vetri delle finestre, e infine osservo le pareti e le porte cercando di capire l'altezza delle stanze. Mi ripropongo, la prossima volta, di tornare con un metro laser. Ad un conto approssimativo, deduco che l'altezza debba essere compresa tra gli otto e i dieci metri. 

no questa non è di Cartier-Bresson, è mia:  Caserta, 2013

Mentre svolgo, assorta, i miei calcoli, mi accorgo che qualcun altro deve aver avuto la mia stessa idea...quando si dice "l'empatia". E da dietro mi arriva una voce, in risposta ai miei interrogativi ancestrali, che afferma: "cà ce iescen tre piani e nu sottotett'!" [trad. considerata l'altezza di questa sala, al suo interno sarebbe possibile ricavarne un edificio di tre piani con sottotetto]

Ecco! Adesso si che mi sento meglio! Del resto, a chi non verrebbe in mente di ricavare dei sottotetti  nelle volte della Reggia di Caserta??!! 

Ahhh! tiro un sospiro di sollievo: menomale che non faccio l'architetto!

oooppppsssss!!! cazzo!! faccio proprio l'architetto!!!

Beh... come dicevo all'inizio... meglio tardi!

venerdì 4 gennaio 2013

Un diamante da Tiffany_una perla di libro!

Un pomeriggio, per distrarmi dopo un’intensa giornata di lavoro, entro in libreria; avevo voglia di frivolezze, leggerezza e spensieratezza. Accattivata dal titolo e dalla vivace copertina, lo compro subito, ed altrettanto tempestivamente ne inizio la lettura. 







































È la storia di Cassie, una trentenne che, durante la festa per il suo decimo anniversario di matrimonio (apparentemente perfetto), scopre che suo marito ha un figlio con una donna dell’alta società scozzese a cui lei era molto affezionata. A soccorrere la sconvolta protagonista, intervengono le sue tre amiche di una vita: Kelly, Anouk e Suzy, decidendo seduta stante che Cassie dovrà trascorrere quattro mesi a casa di ognuna di loro rispettivamente a New York, Parigi e Londra per riprendersi dallo shock e ritrovare la sua identità smarrita dopo anni di matrimonio in cui si era praticamente annullata. E così, fin dal momento in cui Cassie lascia la Scozia, mi trovo immediatamente catapultata anch’io nella mondana, frenetica e trendy Big Apple, per poi passare ai ritmi più lenti e sofisticati di Parigi, fino a cogliere la genuinità e la spontaneità di una Londra che si rivela proprio per quella che si presenta. Assisto a svariati cambiamenti di look, di lavoro e di amicizie, ma c’è una persona che non abbandonerà mai Cassie: le compilerà una lista di cose da fare in ogni città, lasciando talvolta la ragazza un po’ spiazzata di fronte alle sue “richieste”, e le regalerà dei semi di cui dovrà decifrarne il messaggio, che si sintetizza nelle rose Maiden’s Blush da interpretare nell’ultima delle sue tappe.


Insomma, questo libro ha soddisfatto a tutto tondo le mie aspettative, andando anzi ben oltre…. una storia semplice, una sintassi scorrevole ed un intreccio che ti lascia con gli occhi incollati alle pagine dal prologo all’epilogo, forse (unica pecca) un po’ scontato. 
Ma ne vale davvero la pena…..brava Karen Swan!!!

mercoledì 2 gennaio 2013

ELECTRO PARTY@ MERGELLINA

I've never been to the USA, I-I'm a slave for the minimal wage, Detroit, New York and L.A., but i'm stuck in the UK!


Ok, ve lo dico, non ce l'ho fatta, sono arrivata in ritardo. 

Me la sono cantata da sola mentre passeggiavo, mare sulla sinistra, un po' troppo vestita per paura di  un freddo che si è manifestato solo nella mia immaginazione. Ho messo piede sul lungomare liberato alle ore 3:40, con tutta calma, dopo un tour per reclutamento amici, e non ho potuto godermi lo spettacolo di Uhlmann e company. (Perché il nuovo cantante dei Planet Funk, si sa, gode di tutta la mia stima, e anche di più).
In teoria, una recensione sui Planet Funk potrei farla a memoria, ché li ho visti solo 3 volte. La quarta, ahimè, mi è sfuggita.
Arrivare in ritardo sulla tabella di marcia il giorno UNO, spero non sia troppo compromettente. Se non altro, nessun cambiamento rispetto agli anni precedenti. Mi attesto su un ritardo standard.



Un lungomare calmo. Il clima mite, un pubblico rilassato, luci ovunque, e una bella atmosfera. Forse ho perso il panico violento, ché sentivo mormorare che due ore prima non si riuscisse a camminare. Non saprei. Io ho camminato, saltato, corso tra la folla e ballato sui miei ritmi, puramente personali. Una Napoli diversa, gremita, nella quale mi sono mossa, spostata e divertita senza guardarmi le spalle, senza preoccupazioni e in una tranquillità che forse la notte di Capodanno non ho mai visto. Alle 5:00 tutti erano svegli, le bottiglie in giro erano un po' troppe, ma nessuno era molesto. I ragazzi chiacchieravano tra loro, avevano ancora voglia di fare amicizia, e si muovevano ancora seguendo traiettorie lineari.

Musica elettronica. Avrei preferito i Chemicals, si sa, ma il livello era tale da non turbare me, nè gli altri.Pacifica sintetica convivenza tra zombies della prima notte.

Un unico pessimo cocktail ha allietato la nostra serata. Confesso di averlo abbandonato accanto ad un cestino, sfavillante nel suo blu. Non capirò, e non chiederò spiegazioni, su come mai una tequila sale e limone si sia tramutata in una tequila + blu curaçao. Veleno allo stato puro. O lo stomaco, o il bicchiere. Ho scelto lo stomaco, e ho pensato che in fondo avrei dovuto impedire al barista di esprimere la sua frustrazione  fantasiosa e quantomai non richiesta attentando alla nostra incolumità. Ma non si può cominciare l'anno nuovo con spargimenti di sangue/blu. 

Due parole sui Planet Funk, che mi fa piacere in ogni caso abbiano aperto l'anno napoletano.


Ero a Riccione quando ho visto per la prima volta il nuovo Uhlmann con i consolidati compari, e dopo i primi attimi di incertezza ho capito che insieme mi avrebbero trascinato fuori dal baratro. Una piazza di un posto finto come pochi, circondata da persone attive come sagome di cartone. Perché mi trovassi in quel luogo, ancora oggi non saprei dirlo, ma per fortuna c'erano i Planet Funk. La musica, si sa, ti salva sempre.

A Cassino, agosto 2012, 100 km di strada buia, per il gusto di esplodere un po' in una fresca serata d'estate.  E la cornice di un centro commerciale che sparisce quando ti immergi nei tuoi pensieri. Un concerto merita sempre il mio tempo. La musica merita un tempo che non è mai abbastanza.

Napoli, settembre 2012. Le delusioni, nella vita, non si contano. "Ci sono i Planet Funk. Andiamo?" "Certo."
L'intro non potrebbe sembrarmi più azzeccato in quel momento: "I was just looking for happiness".  Mai frase avrebbe potuto sembrarmi più intensa e più vera. Avevo fatto di tutto per cambiare la mia vita, e mi ritrovavo addosso, in un momento, una tristezza talmente profonda da non sapere come scrollarmela di dosso. 
Ma Napoli è bella, l'arenile è fantastico, il pubblico non ha eguali nel mondo (e vorrei citare Avitabile che a Budapest urlava "chi nun zompa ten a cazzimma!"). 
La felicità è dentro di noi, si sa. Ma i Planet Funk sono dispensatori di buona energia. La loro musica nel cervello da molti anni, assorbita in maniera impercettibile, virale e naturale.  Alex Uhlmann completa il palco, e non si risparmia. Il climax si raggiunge con "These boots are made for walking". Napoli balla, e alcuni lo sanno, altri meno, che la città ha fatto da sfondo a "La kryptonite nella borsa", film di Cotroneo. E mentre ballo, e sorrido, lo posso dire, che anche nel film, per un solo indimenticabile e indispensabile secondo, io c'ero! e pure Rosaria Mainella!! E nonostante il dolore sia costante, sorrido. Non posso fare altrimenti.

In alcuni momenti ci vuole Mozart, in altri preferisco Battiato, in altri i Rage against the machine, e in altri momenti... ci vogliono i Planet Funk!

Buon anno a tutti! e che sia un anno pieno di energia positiva.